«Incident» rappresenta un punto di svolta nella tua filmografia. È sempre un lavoro di found-footage ma, stavolta, hai ricostruito un drammatico evento – l’uccisione da parte della polizia dell’ennesimo afroamericano inerme (in questo caso proprio nella tua città, Chicago) – attraverso filmati di telecamere di sorveglianza o di «body worn camera». Come mai questa scelta di cambiamento radicale nel tuo modo di concepire le immagini?
Un mio amico, Jamie Kalven, ha scritto ampiamente su questo caso particolare. Attraverso la sua organizzazione, che si chiama Invisible Institute, ha collaborato con lo studio londinese Forensic Architecture per creare sei video di 10 minuti che esplorano diversi aspetti di questo caso, dal contesto storico più ampio delle forze dell’ordine e dei rapporti razziali a Chicago negli anni, ai giorni, ore, minuti, secondi e millisecondi che circondano questo particolare incidente. Questi video sono stati presentati in una galleria e sono disponibili online. Mentre esploravo tutti i filmati disponibili, un diverso tipo di costruzione narrativa ha preso forma nella mia mente. Ero sempre stato incuriosito dall’idea di attualizzare un classico del cinema come Rashomon, lasciando raccontare una vicenda da diversi testimoni, ciascuno munito di una macchina fotografica. Ho capito che questa era quella storia. Poiché le immagini erano digitali ma a bassa definizione, ho sentito che potevano essere organizzate e montate utilizzando tecniche specifiche del dispositivo video, cosa che probabilmente non avrei fatto se fossero state immagini cinematografiche.