The poison of a thousand movements è un'installazione video/sonora sperimentale che si fonde con il corpo presente in movimento. Si ispira al fenomeno del tarantismo meridionale e all'incrociarsi della storia del dolore, della malattia e dell'appropriazione religiosa della saggezza che apparteneva al corpo e, in particolare, al corpo delle donne. La performance dal vivo mira a interrompere la connessione con gli "uomini di chiesa" e a rimodellare i codici di accettazione legati a quei movimenti "violenti", spesso patologizzati, al piacere del corpo e alle espressioni sessuali. Attraverso un rituale di movimento di guarigione, questo lavoro vuole rivendicare quella storia sotto una definizione non binaria - anti patriarcale di "femminile" e offrire nuove visuali e narrazioni che contrastano l'archetipo romanticizzato attribuito alla spiritualità "femminile".
Biografia:
Dyana Gravina (They/She) è un'artista interdisciplinare, curatrice indipendente, attivista, militante e creatrice di comunità. È la direttrice fondatrice di Procreate Project, un'organizzazione artistica pionieristica dedicata alle donne e agli artisti non binari che sono (m)others. Attualmente è ricercatrice in "Sessualità e cultura di genere" presso la Birkbeck University. Ha collaborato e curato progetti con partner e enti tra i quali RCA, King's College London, LADA Live Art Development Agency, Ugly Duck, Mimosa House, Women's Art Library, RichMix, Richard Saltoun Gallery, 198 contemporary Art and Learning, solo per citarne alcuni. Le sue azioni di performance e conferenze performative sono state ospitate nel Regno Unito e a livello internazionale, all'Artist Association Israel, East Street Arts, Wellcome Collection, ]Performance Space[, Leyden Gallery, The Yard Theatre, Institute Center of Photography ICP (NYC), Art Basel / Galleria Richard Saltoun, Minusoffspace (Vienna), Galleria Menoparkas (Kaunas), Gruentaler9 (Berlino).
Note dell'artista e quadro di ricerca recente:
"Le mie pratiche artistiche e curatoriali sono interessate al femminismo, alla migrazione e alle politiche del corpo che si manifestano in un corpo di lavoro transdisciplinare che combina movimento, azioni, fotografia, video e testo. Uso il movimento somatico come metodo di ricerca; il corpo come materiale. Uso sia la conoscenza autobiografica che quella collettiva per sfidare la percezione del sé sotto le costruzioni sociali e gli ambienti culturali e ridefinire e decostruire nozioni univoche di 'femminile'. Nel mio lavoro recente, rivisito la mia educazione in una piccola città del sud Italia e scelgo spesso i 'collant', un indumento associato a specifiche immagini e standard di 'femminilità' e sensualità, per riconnettere e raccontare storie di donne della classe operaia e dal background socio-politico svantaggiato. Queste donne erano mia madre, le mie nonne e i miei antenati. Ricordo quei collant strappati, i peli sul corpo e la vita impenitente nei loro corpi (di cui mi vergognavo a causa del contesto generale e dei coetanei che mi circondavano). Sto ritrovando la strada per tornare a quelle identità per rivedere e rimodellare la mia, riformulando i "collant" con un significato di sacrificio, ribellione e movimento.