Un paio di anni fa, l’antropologo calabrese Vito Teti mi ha coinvolto nel suo saggio La restanza (Einaudi, 2022). È stato lo stesso Teti, in passato, a riportare alla luce questo termine ormai in disuso, in riferimento ai tanti abitanti del Sud Italia che decidono di rimanere nel loro paese d’origine, ma anche a coloro che vanno via e che, seppur lontani, mantengono un legame simbiotico col proprio passato e con la propria terra.
L’essere nato e cresciuto in Calabria – e l’essermi in seguito trasferito negli Stati Uniti per quasi un decennio – ha fatto sì che la mia personalità si dividesse in due, come una fotografia strappata in due parti. Il tema del doppio è una costante della mia vita, così come lo è in chiunque abbia lasciato il proprio luogo d’origine.
In questi anni ho ragionato a lungo sulla tematica del doppio e dell’io diviso, dell’inevitabile scontro interiore, dell’essere ancorati a una sorta di malinconia senza nome e, allo stesso tempo, vivere a metà tra due culture. In tema fotografico, queste sensazioni si riflettono inevitabilmente nell’atto dello strappo che, di fatto, crea una terza dimensione temporale in cui si fondono passato e presente. In questo caso, il passato vive nelle fotografie analogiche che ho scattato tra gli anni 2010 e 2012 a New York; il presente, in una serie di fotografie recenti ad amici, perlopiù atleti, che, nelle pose, si ispirano alle statue del periodo ellenistico, ai divi di Hollywood come James Dean o, semplicemente, ai riferimenti fotografici della mia infanzia – da Wilhelm von Gloeden a Walter Pfeiffer a Terry Richardson.
Restart/Restanze è un on-going project e vuole essere, infine, una personale riflessione sullo stato attuale della fotografia, sul suo futuro, e sull’importanza del passato in qualsiasi processo evolutivo e artistico.